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Salini: saremo fra i primi negli Usa

«Nel 2001 eravamo un’azienda che fatturava 146 milioni. Nel 2014 abbiamo unito la nostra società familiare a Impregilo, quotata ma forse meno reattiva di noi, e in due realizzavamo un giro d’affari totale di 4 miliardi. Oggi siamo un gruppo presente in 50 Paesi con 6,1 miliardi di ricavi, un portafoglio ordini di 37 miliardi, 30 dei quali relativi a costruzioni, con nuovi lavori per 7,3, un margine operativo lordo del 9,3%». Pietro Salini, amministratore delegato di Salini-Impregilo, sfoglia i risultati 2016 approvati dal consiglio e fa il bilancio del primo triennio da «grande gruppo». «Mi fa piacere dire “missione compiuta”. Ma non basta. Il messaggio che diamo con il nostro progetto realizzato è: “non bisogna avere paura”». 
Paura di cosa? 
«Paura di fare, purtroppo diffusa nel nostro Paese. In meno di tre anni abbiamo unito e integrato due aziende con culture e organizzazione profondamente diverse. Senza mai il timore di non farcela. E i fatti ci hanno dato ragione: siamo il terzo gruppo industriale privato italiano». 
Anche perché alcuni sono andati all’estero.
«Certo. Ma questo è il mercato globale: se grandi protagonisti del nostro sviluppo scelgono di andare altrove, come sistema Paese non devo lamentarmi: mi devo chiedere dove ho sbagliato e correggere gli errori». 
Pensate anche voi all’ipotesi di lasciare il Paese?
«Non rientra proprio nei nostri pensieri. Siamo una multinazionale con il 92% del fatturato prodotto all’estero, solo due cantieri domestici, ma ci sentiamo profondamente legati al nostro Paese. Tanto è vero che abbiamo deciso di promuoverne un simbolo, forse più amato altrove (come purtroppo accade non di rado) che in Italia: Arturo Toscanini. È il 150esimo anniversario della sua nascita e stanno per partire le celebrazioni che organizzeremo qui e negli Stati Uniti noi e la nostra controllata americana Lane construction: Toscanini era un “eroe dei due mondi”, ha diretto in Italia l’Orchestra del Teatro della Scala e negli Stati Uniti la Nbc Symphony Orchestra». 
Con Donald Trump punterete molto su Lane... 
«Grazie a Lane, acquisita a inizio 2016, il mercato Usa è diventato fra i più importanti del gruppo, con una contribuzione in termini di ricavi pari a un quarto del totale. Quindi più dell’Europa che, Italia compresa, equivale al 23% del giro d’affari. A fine piano nel 2019 Lane peserà probabilmente un terzo del fatturato, previsto pari a 9 miliardi. Dall’inizio dell’anno ha già acquisito nuovi ordini per 850 milioni. Vede, gli Usa hanno grandi infrastrutture ma spesso vecchie e molte “prossime alla scadenza”. Gli investimenti sono cominciati prima di Trump, anche se certo il nuovo Presidente ha annunciato l’ambizioso programma nella costruzione di strade, ponti, gallerie, aereoporti, porti e ferrovie per 1 trilione di dollari, equivalenti a cinque punti di Pil, in dieci anni. Ebbene, l’americana Lane ci sarà con l’obiettivo di diventare tra i primi gruppi di costruzioni negli States. Anche con eventuali nuove acquisizioni». 
Fra le infrastrutture Usa in “scadenza” include la diga di Oroville, a rischio di tenuta? 
«Si. E con le compagnie di assicurazioni Usa stiamo progettando una linea di intervento sulle dighe su un doppio binario: con il nostro know how potremo fare verifiche, interventi, ricostruzioni; il contributo delle assicurazioni sarà una grande opera di protezione preventiva e di abbattimento di rischi e danni». 
E l’Italia? Toscanini va bene ma in termini di mercato?
«Vorremmo certo lavorare sempre di più anche nel nostro Paese, che oggi rappresenta il 7-8% dei ricavi. Abbiamo del resto contribuito a “tutte” le grandi opere, dall’Autostrada del Sole fino alla rete dell’alta velocità. Ma qui mancano i capitali, domina l’incertezza e non c’è visione di lungo periodo. Non che siano mali solo italiani, però da noi sono più radicati». 
Lei si era espresso a favore di Renzi. E ora? 
«Mi ero espresso a favore delle riforme promosse da Matteo Renzi. E resto a favore delle riforme. In assenza delle quali l’Italia è destinata a restare arcaica nei processi decisionali. Domina la paura del potere, di decidere. Se il Qatar lancia un piano al 2030, non potremmo “osare” almeno un’Italia 2025?». 
Magari con rammarico, però potete considerare il nostro Paese marginale.
«I nostri concorrenti internazionali hanno in media una base di ricavi domestici del 60%, quindi capisce bene che vorremmo non considerare l’Italia marginale. Siamo comunque player globali e guardiamo a queste cifre: nei prossimi tre anni il mercato mondiale di nuove infrastrutture è stimato valere 21 trilioni e il solo fabbisogno americano entro il 2020 sfiora i 4 miliardi. Fra il 2017 e il 2019 siamo interessati a partecipare a gare mondiali il cui valore complessivo è di 478 miliardi».

Comunicato di Avatar di pioppoelepioppoele | Pubblicato Giovedì, 08-Giu-2017 | Categoria: Finanza
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