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Tempi Moderni


di Paola Danese@woelfenbuettel«Crediamo che una società in cui ci si aiuta a vicenda sia migliore di una in cui ognunova per conto proprio». Bill Clinton, knock-out speechSecondo alcuni grazie alle moderne tecnologie siamo dentro alla terza rivoluzioneindustriale, quella dove le Informazioni possiamo generarle in prima persona e farle girarepiù rapidamente, dove tutto, anche l’energia, può essere considerato “condiviso”. Alle volteascoltando questi visionari mi sento nel futuro. Quel futuro che da bambina avevo vistosolamente in tv e che oggi sembra per certi versi già superato.Al contempo però il futuro di oggi è molto diverso da quello che immaginavo da piccola. Lamaggior parte delle informazioni che girano sulla rete o sui canali, chiamiamoli cosi“democratici”-quelli dove ognuno dice la sua aspirando ad un’eguaglianza sociale e adun’autorevolezza di pensiero che non esistono ma che oggi, grazie a fan, followers o aqualche altro guazzabuglio tecnologico è più facile scimmiottare- ha l’amaro sapore delcomplotto, del buio senza speranza, dell’etica di proprietà esclusiva di pochi eletti chescrivono non per cercare di salvare il mondo marcio che sta nei loro occhi ma per farvedere che in un mondo dove i giganti non esistono, loro sono quelli che piùassomiglierebbero al Nessuno della mitologia. Gli Ulisse, quelli che fanno gli scemi per nonandare in guerra –ma che la guerra la fanno vincere-, i low profile insomma, oggi nonvanno più di moda.In un contesto in cui l’informazione sembra estremamente disponibile, in cui lasovraesposizione sembra un valore da perseguire e il concetto sessantottino dell’esserealternativo è stato riassunto e assorbito in una cultura mainstream alla Steve Jobs o aqualche movimento nostrano che manderebbe tutti a casa a fare la calza, l’impegno dei“vecchi” credo debba essere quello di riuscire a trasferire ai giovani (o almeno a loro) ilsenso critico, verso se stessi prima di tutto.Mi sono accorta di quanto il mio mondo non sia più quello della generazioneimmediatamente successiva alla mia quando, durante una chiacchierata di poco tempo fain mezzo a giovani neolaureati, ascoltavo le loro paure e la loro visione del mondolavorativo che (non) li aspetta dietro l’angolo: alla stessa età in cui io avevo la percezione diessere arrivata finalmente all’inizio di quella scala in cui i miei genitori hanno dimostrato illoro spessore e il loro valore, assumendosi la responsabilità di creare ricchezza per lasocietà civile e per “il mercato” e non vedevo l’ora di confrontare i miei muscoli giovani eforti con le asperità della vita vera e far vedere quanto valevo, ecco, a quella stessa etàquesti brillanti neolaureati hanno le paure e le disillusioni di chi ha visto già tutto, di chi siè misurato col mondo e ha fallito.Allora è questa l’altra faccia dei candidati che si presentano ai colloqui, o dei ragazzi cheinseriamo in azienda che si mostrano volenterosi e sicuri di loro stessi, quando nonsaccenti e presuntuosi grazie agli investimenti in studi e master pagati dai loro genitori? Èl’assenza di prospettiva il prezzo che devono pagare gli eredi degli yuppies degli anni ‘80?Qualche tempo fa volevo pubblicare delle riflessioni sul grande successo che stannoriscontrando alcune trasmissioni televisive di self-help e di trasferimento di competenze dibase: dal come vestirsi per ogni occasione, come educare un cane o ristrutturare casa pervenderla in tempi più brevi o come riconoscere di essere affetti da una malattia con sintomiche ci vergogniamo di comunicare anche al medico curante o migliorare il rapporto dicoppia ritornando a scuola di anatomia di base fino ad arrivare a come migliorare leperformance del genitore quando i figli ci riducono allo stremo delle forze.L’aspetto interessante di questo successo è che, pur se con strumenti diversi, in Italiacontinuiamo a perseguire l’imperativo di Cavour di fare “gli italiani”, dopo che era stata”fatta l’Italia”. Il fil rouge che lega la quasi totalità delle trasmissioni di life style è centratasull’approfondimento: cioè sul costringere lo spettatore (o meglio, il soggetto dellatrasmissione nel quale lo spettatore è portato a ritrovarsi) ad andare oltre la superficiedelle cose inchiodandolo alle proprie responsabilità: siamo noi a dover acquisire piùstrumenti, noi a dover modificare atteggiamento sia con il cane aggressivo sia con il figliomaleducato (mi perdonino la vicinanza quelli particolarmente sensibili alle differenze),siamo noi a doverci mettere in discussione e in gioco se il rapporto di coppia non funziona,noi che dobbiamo prendere coscienza della quantità di cibo che ingeriamo se abbiamo unpeso di gran lunga superiore a quello che vorremmo.. e via di seguito..Ciò però che mi ha convinto che queste riflessioni avessero un legame stretto con ilmanagement è stata la lettura dei commenti alla trasmissione che ha recentementedebuttato su Cielotv, il canale sky del digitale terrestre: The Apprentice. Avevo avuto mododi seguirne diverse puntate durante un soggiorno negli USA e ne ero rimasta entusiasta.Avevo pensato, e lo penso ancora, che una figura dirompente e di successo come DonaldTrump forse sarebbe stata troppo per il pubblico italiano: il dito puntato che invital’aspirante apprendista a prendere la via dell’uscio con la perentorietà dell’americanoyou’re fired! (sei licenziato) è stato trasformata in un “sei fuori” più digeribile per il popoloavezzo ai reality show, ma sembra sia troppo dura comunque, anche se a pronunciarla èuno dei pochi manager davvero di successo che l’Italia abbia mai avuto.Sorvolando sulla curiosa selezione che ha portato questi 15 aspiranti apprendisti amisurarsi sulle prove proposte dal boss Briatore, il candidato tipo (italiano) èrappresentato nelle sue più forti caratteristiche: autoreferenziale, saccente, infarcito di datiteorici, concentrato sull’organizzazione e sulla delega (che qui è dettagliata al meglio nellaparte dello scarico di lavoro sul collega più vicino), super laureato e super masterizzato…eppure incapace di ottenere risultati. A poco giova la riflessione che più volte Trump hapalesato in alter sedi che l’Università (e lui parlava di quella americana..) forma gli studentia diventare bravi impiegati, al massimo bravi manager, ma non gli spiega nulla di cosasignifichi muoversi in un contesto competitivo, cosa sia il valore che deve creare per essereproduttivo nella sua posizione lavorativa, quali siano le scelte finanziarie corrette daperseguire, avere un metro di misura valido e standardizzato per misurare il proprio valoresul mercato. Anche su quello del lavoro.I molti che apprezzano il britannico Gordon Ramsey, altro bad guru del management dellaristorazione nella televisione dei nostri giorni, non hanno riservato una parola diapprezzamento per il nostrano Briatore. Pochi notano lo scaricabarile incessante deiragazzi che vengono chiamati alla scrivania a motivare un fallimento, quasi nessuno latotale assenza di consapevolezza che fare viene prima di organizzare, la visione che illeader non è chi ci mette la faccia in prima persona, quello che facilita il lavoro di tutti e simette a servizio del team perché la squadra possa raggiungere l’obiettivo, ma quello che apelle sembra più simpatico o ispira più fiducia..Incontro ogni giorno persone per le quali il titolo della laurea è un punto di arrivo, anzichéun punto di partenza; per le quali avere un impiego significa svolgere il compitino, e noncreare valore; candidati che anziché chiedersi cosa possono dare loro all’azienda in cambiodello stipendio che l’azienda garantisce, interrogano il titolare sui dettagli di ferie eretribuzione degli straordinari; impiegati superpagati per competenze tecniche disponibilia tutti che a fine turno si fanno cadere la penna e dimenticano anche il nome dell’aziendaper la quale lavorano… Questo è il mondo che vedo oggi e nel quale, citando Trump, “moltepersone non sono ricche perché vogliono ricevere più di quanto vogliono dare”.Con un assillo di austerity che rischia di strozzare tutti, uno alla volta, il compitodell’imprenditore è oggi più che mai proteggere i posti di lavoro dei propri dipendenti efarlo anche con scelte impopolari.Titubare di fronte a una scelta giusta, ma impopolare, fa perdere tempo; non prendere unadecisione impopolare per non rompere equilibri consolidati ma improduttivi, fa perderecompetitività; non creare gerarchie e responsabilità chiare, rende tutti uguali e il barilefinisce di rotolare su chi firma gli assegni e paga gli stipendi, erodendo margine che cipermette di fare investimenti; tenere tutto insieme e puntellare una strutturascricchiolante, indebolisce la squadra e ridimensiona il profitto già nel breve termine.La paura nel business come nella vita ruba i successi che avremmo potuto avere, sgretola lepotenzialità che ognuno di noi ha dentro: alle volte sono nascoste dalla saccenza, altre sonomortificate dall’aver preso per vero qualcosa che non abbiamo approfondito, sempre sonorese improduttive dalla mancanza di coraggio.Chi è arrivato, in un contesto sano e competitivo attraverso una selezione prodotta dairisultati, a posizioni di potere e di responsabilità deve seguire il primo comandamento delmanagement: non nuocere. In rapida successione, deve essere in grado di risponderetempestivamente e in maniera risoluta alle criticità che ogni giorno gli vengono messe sultavolo, deve scardinare –in qualsiasi modo si renda necessario- l’ottica dell’alibi, devecreare differenziazione dentro e fuori l’azienda: internamente costruendo gerarchie chiaree sul mercato distinguendosi sul cliente grazie a strategie definite e condivise con il frontend.E non dimenticare mai che non decidere, temporeggiare, scegliere per il compromesso eper lo status quo può essere –e lo sarà- un modo irresponsabile di nuocere a tutti.

Comunicato di Avatar di SpheraGroupSpheraGroup | Pubblicato Mercoledì, 20-Mar-2013 | Categoria: Lavoro
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